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Tra scienze e invincibile curiosità: l’arte di Luciano Bertoli al Palazzo Da Mosto di Reggio Emilia

Installazioni futuriste dal sapore dadaista, riproduzioni serigrafiche, forme meccaniche, alti riferimenti letterari, frattali e quanti, dinamiche scientifiche, cibernetica, fantasie oniriche e sottilmente erotiche, assemblaggi, impulsi luminosi e sonori, multipli, video, disegni, plexiglas, olî su tela, perenne rinnovamento per restare sé stesso, alchimie continue e inarrestabili. È questo un elenco incompleto del vocabolario artistico del reggiano Luciano Bertoli, cui un folto gruppo di attori istituzionali pubblici e privati e anche imprenditoriali, capeggiati dalle Fondazioni Palazzo Magnani e Pietro Manodori, dedica una ricchissima (quasi un centinaio le opere esposte, la più recente del 2015) retrospettiva, affidata alla curatela di Martina Corgnati e ospitata tra le sale rinascimentali del centralissimo Palazzo Da Mosto di Reggio Emilia.

Luciano Bertoli, “Città alcoolica”, 1985, metacrilato, estrusi metacrilici colorati, fibre ottiche, 135 x 60 x 80 cm, photo © Carlo Vannini, courtesy Fondazione Palazzo Magnani

Nella preview di “Luciano Bertoli. Frattempo. Le curve di Mandelbrot” – titolo ripreso da un ciclo creativo databile fine anni ‘80 e inizi ‘90 –  Maurizio Corradini, presidente della Fondazione Palazzo Magnani, sintetizza molto bene uno degli aspetti più rilevanti della creatività di Bertoli: l’artista riesce a conferire poesia alle scienze. Concetto che fa da leitmotiv della presentazione ufficiale nel momento in cui anche il figlio Andrea definisce il padre artista eclettico, osservatore del progresso scientifico, anche di quello ostico ai più. La curatrice Corgnati fa zoom verbale sull’arte antipittorica di Luciano Bertoli, impregnata di studi e osservazioni che spaziano dalla pittura tardomedievale e quattrocentesca sino alle correnti scientifiche del ventesimo secolo, che sdogana la coincidenza tra arte e vita. I passaggi critici succitati sono essenziali per entrare meglio nel mondo creativo dell’artista reggiano che, nato nel 1940 e morto nel 2021, attraversa i decenni artistici oscillando tra il fortissimo legame con il suo territorio e le mappe concettuali che esplorano l’essenza dell’universo.

Luciano Bertoli, “Karriola”, 1976, matita, pastello e inchiostro su carta, 20 x 28,5 cm, photo © Carlo Vannini, courtesy Fondazione Palazzo Magnani

Possiamo percorrere l’ipereclettismo di Bertoli attraverso alcune delle opere chiave esposte nelle diverse sale della mostra, iniziando, paradossalmente (ma non troppo) per un uomo interessato alle scienze, proprio da un uomo. È l’uomo calviniano Sul salice morto (2003), sul quale l’artista si rivede, novello Cosimo, da bambino e a cavalcioni. L’albero e la figura umana sembrano alla fine del ciclo vitale e sono stagliati su uno sfondo impregnato di raggi cosmici. «[…] arriverebbero ai miei occhi fotoni di colore, atomi raggruppati entro grovigli di particelle a spin». Per Bertoli, la realtà è fatta soprattutto di onde e vuoti, raggi e atomi. E nell’Autoritratto del 1970, uno stile già più riconoscibile come quello espressionistico si fonde mirabilmente con schizzi quasi d’ira che compongono alla fine un volto che riporta sia a una realtà da essere umano sia a un’iconografia da fantascienza, con orecchie alla Spock di Star Trek; con Luciano Bertoli si ha la sensazione di essere sempre in due mondi, nello spazio cosmico e sulla terra perché l’artista solleva con la mano un fiore.

Luciano Bertoli, “L’ombra di Leonardo”, 1975, inchiostro, acquerello, collage e combustione su carta, 28,5 x 20 cm circa; “Vale più di mille parole”, 1975, installazione, legno dipinto, ferro, corde, pulegge, oggetti in sospensione, 195 x 190 cm escluso elementi installati e in sospensione, photo © Carlo Vannini, courtesy Fondazione Palazzo Magnani

Se i mostriciattoli tardomedievali di Hyeronimus Bosch erano fantasie bizzarre capaci di rappresentare i demoni del male, i mostriciattoli (in)animati di Bertoli, come ad esempio la Macchina progetto cosmico del 1978 oppure Vale più di mille parole del 1975-76, sono protagonisti della sua maestria nelle opere a parete di grandi dimensioni. Non si tratta di una decostruzione fine a sé stessa, bensì un grande solco creativo in cui l’artista reggiano unisce in un unico sguardo la sua padronanza tecnica a una nobile giocosità alla Disney, sempre tendendo un occhio come permanente sentinella verso le infinite distanze dell’universo. Nascita di Hiberna del 1985 è un altro passaggio cruciale della creatività di Bertoli. «La costante che unisce tutti i periodi della mia vita è il considerare il mio cervello come una macchina che funziona e produce. E, producendo, si rinnova». Il metacrilato si prende la scena e l’artista ci proietta in una dimensione di megalopoli cinematografica (quella di Metropolis o di Blade Runner). Siamo di fronte a uno scenario futuribile atteso e collocato di fronte c’è il monolite primigenio sempre in plexiglas che ci ricorda la fonte di conoscenza quale suprema stella cometa del vivere e dell’agire.

Luciano Bertoli, “Frattempo, Le curve Mandelbrot”, 1997, olio su tavola, 100 x 100 cm, proprietà dell’autore, photo © Carlo Vannini, courtesy Fondazione Palazzo Magnani

Non si può non leggere l’opera di Luciano Bertoli senza fare focus anche sulla materializzazione tecnica di macchine e meccanismi cinetici. I Virtuosini, risalenti alla fine degli anni ‘80, strutturati come i ‘piatti’ domestici vintage per l’ascolto degli LP, ci rimandano allo sperimentalismo musicale posteriore alle frontiere della dodecafonia. E ancora, le grandi installazioni come Il criterio fondamentale (1995) costituiscono davvero un grande salto in avanti sia per l’uso dei materiali, più elaborati e raffinati, sia per la l’attitudine concettuale (il processo creativo diventa ulteriormente sofisticato e mostra con più forza la padronanza tecnica dell’artista anche in direzione della cinetica). Infine, un altro grande fiume artistico in cui si è riversato l’agire ipereclettico di Bertoli sono i grandi dipinti a olio su tavola che rendono visivo il grande interesse maturato dall’artista per i segreti della natura quantistica. Ne è magistrale esempio Sintropia d’amore (1999), anch’esso fusione della natura umana e scientifica della concezione di Luciano Bertoli. Nel fluire gravitazionale e infinitamente piccolo della materia, si intravedono piccoli e seducenti elementi corporali femminili, perché sintropia sta a indicare la tendenza di un sistema a essere nello stesso tempo tendente all’avvicinamento e alla differenziazione, sintesi concettuale che fotografa appieno il mondo dell’artista. E ancora, dopo il cruciale incontro con la copertina della rivista statunitense Science di ottobre 1985, che raffigura l’insieme di Mandelbrot, ovvero ciò che comunemente definiamo “frattali”, Bertoli ha infine davanti agli occhi una rappresentazione morfologica di questo mondo e, come di consuetudine, se ne nutre efficacemente per riportarlo nelle sue opere. La sfida è molto affascinante, i frattali sono oggetti matematici tra i più complessi, ma l’artista non indietreggia, perché “tutt’al più siamo un’idea, un disegno voluto da quell’unica mente”. La retrospettiva è accompagnata dall’omonimo catalogo edito da Silvana editoriale e dalla Fondazione Palazzo Magnani.

Info:

Luciano Bertoli. Frattempo. Le curve di Mandelbrot
21/09-24/11/2024
Palazzo da Mosto
Via Giovanni Battista Mari, 7 – Reggio Emilia
www.palazzomagnani.it/mostre/in-corso


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