Seguo il lavoro di Núria Güell da un po’ di tempo e quello che mi ha sempre colpito è la sua capacità di sovvertire le norme attraverso le sue azioni artistiche che rivelano le strutture precarie della realtà in cui viviamo. I suoi lavori non operano solamente nell’ambito dell’arte e provocano un impatto sia sulla sua vita sia su quella degli altri soggetti coinvolti. Il più delle volte, Güell oltrepassa il limite: ci mette, ad esempio, di fronte a cosa potrebbe succedere se scegliessimo di agire contro determinati codici morali, senza esprimere un giudizio sulla scelta. Nell’occasione della sua mostra All order is required pure presso Fabra i Coats, Centre d’Art Contemporani, a Barcellona, le ho chiesto di rispondere su certi concetti che ha sviluppato nel corso della sua carriera.
Alessandra Saviotti: Núria, vorrei iniziare questa intervista riferendomi a un concetto che abbiamo già discusso ovvero “l’effetto collaterale” dell’opera d’arte. Mi riferisco in particolare a Toda Obrea de Arte es un Delito no Cometido, per la quale hai invitato ex detenuti condannati per reati di furto d’arte a lavorare come personale di sicurezza per la tua mostra. Come hai affermato in precedenza, lavorare con altre persone può significare una non concordanza tra i risultati e le intenzioni iniziali (Medina Estupiñan e Saviotti, 2017). Quali erano le tue aspettative per questo lavoro e cosa è successo quando l’hai attivato?
Núria Güell: Per Todo Orden Se Quiere Puro. Una exposición retrospectiva ho approfondito la deriva moralizzatrice della nostra società, per cui ho voluto affrontare il potere, la punizione e l’altro lato della moralità. Il mio interesse era di rivelare e far percepire la violenza dello Stato, o quella dell’autorità costituita. Il “cattivo comportamento” produce un giudizio sulla propria condotta, che si basa tuttavia su convenzioni che cambiano continuamente. Le nozioni di verità, giustizia, bene e male conducono a concetti teologici; sono trucchi che cercano di coprire la mancanza di legittimità del potere. Il potere premia e punisce secondo un ordine tutt’altro che puro, sebbene cerchi sempre di proiettare l’immagine di una particolare purezza o razionalità. Inoltre, la legge è il braccio armato della morale, la quale emargina gli individui considerati pericolosi o malati nel nome del bene collettivo. Tutto ciò avviene però tramite il consenso della popolazione non detenuta. Toda Obrea de Arte es un Delito no Cometido è stato quindi un espediente per accorciare le distanze tra “cittadini-presunti-non-criminali” e “cittadini-criminali”. L’incontro tra corpi “schedati” e il loro contrario ha rivelato le contraddizioni dei rapporti di potere che, a mio avviso, hanno spianato la strada alla riflessione sul significato di etica. L’opera mira a mettere in crisi le convinzioni morali e i pregiudizi, percepiti come l’unica possibilità che l’essere umano–inteso come animale parlante–ha di assumersi la responsabilità delle relazioni con i propri simili, gli animali e l’ambiente. Per la riuscita di questo lavoro, la negoziazione con l’istituzione è stata determinante, tuttavia quello che si vede nella mostra è solo la punta dell’iceberg.
Mi ha incuriosito la scelta di presentare nuove opere come parte della tua retrospettiva. Se mi passi il termine, lo interpreto come un atto di rifiuto delle regole predeterminate e di certe aspettative che il sistema dell’arte ha nei confronti degli artisti. Per esempio, cosa succede quando incarichi altri artisti di rifare una delle tue opere? Si tratta di testare la rivendicazione del proprio potere artistico (anche se limitato alle strutture deputate in questo caso) e allo stesso tempo di cercare un “significante” che non sia un oggetto?
La mia intenzione nel concepire Retrospectiva en tercera persona era, da un lato, di interrogarci sui limiti di quella che chiamiamo “opera d’arte”; dall’altro ho voluto intervenire sul contesto in cui si sviluppa il mio lavoro. Sebbene sopravviva ancora in alcuni circoli artistici, l’idea di opera d’arte intesa come oggetto autonomo è stata esplicitamente messa in discussione da molti professionisti del settore. Il tentativo di confutare la tesi che l’arte sia una merce o un “oggetto di valore” è stato dibattuto almeno dagli anni Sessanta. Il contesto teorico nel quale si situa la mia ricerca considera l’opera come un esercizio che si svolge al di fuori o ai margini dell’ambito culturale, libero dalla logica del capitale o della produzione di valore. Quando ho coinvolto altri artisti nel realizzare una versione di alcune mie opere, ho chiesto loro di riattivare quell’esercizio partendo dal loro punto di vista. Le istituzioni hanno bisogno di operare o articolare la loro posizione come se l’opera d’arte fosse qualcosa di tangibile e ben definito, hanno bisogno di oggetti. Questo è però solo un pretesto per destabilizzare la percezione comune di cosa sia la cultura. È una specie di esercizio di sovversione. In altre parole, parafrasando Deleuze, si tratta di confutare le certezze e le convenzioni dell’opinione pubblica, e quindi della cultura mainstream, per far entrare un po’ di aria fresca. Inoltre, poiché non sono né un soggetto né un’artista autonoma, ho voluto mostrare qualcosa che fa parte di me. Questo è il motivo per cui ho invitato altri artisti. Nel secondo atto della mostra, intendevo infatti mettere in discussione sia l’autonomia dell’opera che quella dell’artista. Le opere non emergono dal nulla; assorbiamo tutto ciò che percepiamo: l’atto creativo è un miscuglio di elementi esistenti che possono provenire da qualsiasi campo ed essere materiali e immateriali.
Un aspetto del tuo lavoro La Banalidad del Bien è rinunciare al tuo status di artista per ottenere quello di religiosa della Chiesa Cattolica al fine di ottenere benefici fiscali. Se avessimo un esercito o una chiesa di artisti, pensi che le dinamiche di potere cambierebbero? Cosa comporterebbe per la ricerca artistica?
Su questo argomento voglio prima di tutto fare un chiarimento per evitare ogni possibile confusione: in quel lavoro non ho rinunciato a essere un’artista. Il gesto di cambiare la mia condizione lavorativa in quella di “religiosa” è stata una conseguenza dei miei incontri con la suora YouTuber e i parroci della mia regione, a seguito dei quali ho deciso di includere la burocrazia amministrativa tra “le regole del gioco” per far luce sulla condizione precaria della figura dell’artista all’interno dei regolamenti legislativi o amministrativi. Detto questo, l’idea di un esercito o di una chiesa di artisti è per me molto difficile da concepire se non come una gag comica. Il potere della pratica artistica si basa sull’intervento ai margini delle dinamiche istituzionali. Facendo un confronto con la teoria psicoanalitica lacaniana, che mi piace approfondire, la pratica artistica sarebbe una sorta di “non tutto” all’interno delle pratiche cosiddette professionali: l’artista dovrebbe pertanto rimanere fedele a quel “non tutto”, impedendo che la propria pratica venga catturata dalle dinamiche di potere della cultura. In altre parole, l’artista non può far parte di un esercito o di una chiesa, che sono dispositivi del “tutto”, e dispositivi di potere. Il potere, comunque sia rappresentato, appartiene alla cultura, e viceversa. La pratica artistica moderna, che è quella di cui mi occupo, è essenzialmente anticulturale, come aveva già sottolineato Foucault tra il 1983 e il 1984. Perché? Perché l’arte moderna si interroga su ciò che è stabilito, le forme, le convenzioni, le tradizioni, il consenso, ciò che è dato per scontato, e tutto ciò che costituisce una cultura. Il rapporto tra arte e cultura è conflittuale. La cultura è essenzialmente conservatrice, inibisce tutto ciò che la mette in discussione, se non può reprimere il dissenso, lo cattura e lo assimila in modo che il potere dell’arte si annulli. Cosa succede quando una pratica artistica diventa culturale? Ebbene, diventa parte della propaganda del potere, in qualunque modo sia rappresentato. Se l’arte non fosse anticulturale, la cultura finirebbe per soffocarci. Ecco perché l’artista deve cercare di rimanere nella “terra di nessuno”, anche se il suo sostentamento può provenire dalle istituzioni culturali. Una “cultura critica” può solo essere una “critica della cultura” e dunque una critica alla comunità, poiché tutte le comunità sono culturali. In sintesi: il compito dell’arte è dissolvere senza istituire. Da qui la sovversione a cui ho accennato prima. Il fatto che venga raggiunto o meno è un’altra questione, ma questo è l’unico significato che trovo in quello che faccio.
Alessandra Saviotti
Info:
Núria Güell
www.nuriaguell.com
Núria Güell. La Banalidad del Bien (2021). Installation view at Fabra i Coats – Centre d’Art Contemporani, Barcelona. Photo: Eva Carasol, courtesy the artist
Núria Güell. Retrospectiva en tercera persona (2021). Installation view at Fabra i Coats – Centre d’Art Contemporani, Barcelona. Photo: Eva Carasol, courtesy the artist
Núria Güell. La Banalidad del Bien (2021). Enlarged reproduction of the documents that certify Güell’s registration in the Special Regime of Social Security contributions, as a religious of the Catholic Church. Fabra i Coats – Centre d’Art Contemporani, Barcelona. Photo: Eva Carasol, courtesy the artist
Núria Güell. Todo obra de arte es un delito no cometido (2021). Amadeu Casellas (on the left of the image), one of the ex-prisoners hired to work as room guards and informants. Fabra i Coats – Centre d’Art Contemporani, Barcelona. Photo: Eva Carasol, courtesy the artist
is a contemporary art magazine since 1980
NO COMMENT