Quell’incredibile spazio dedicato alla contemporaneità e ai suoi problemi e che risponde al nome di Palais de Tokyo, situato in quel bellissimo edificio in bilico tra purismo razionalista e imponenza retorica, dopo un piccolo maquillage, il 26 novembre ha riaperto le porte con un’offerta espositiva molto articolata e di grande impatto e coinvolgimento. Fino al 20 febbraio tre sono le mostre visitabili: “Ubuntu, un rêve lucide”, “Aïda Bruyère, Never Again”, “Jonathan Jones, San titre (territoire originel)”; mentre proseguiranno fino al 20 marzo altre tre iniziative: “Sarah Maldoror : Cinéma Tricontinental”, “Maxwell Alexandre, New Power”, “Jay Ramier, Keep the fire burning (gadé difé limé)”.
Ci soffermiamo sul progetto “Ubuntu”, a cura di Marie-Ann Yemsi. La parola Ubuntu deriva dalle lingue bantu dell’Africa sub-sahariana e serve a indicare un’etica o un’ideologia che si focalizza sulla lealtà e il rispetto nelle relazioni tra le persone, ma indica anche il senso dell’appartenenza e di legame e di condivisione. La sua etimologia è divisa tra la parola Zulu “Ubuntu” e “Unhu” degli Shonas in Zimbabwe o “Utu” in Swahili, lingua parlata in Sudafrica.
La mostra ci parla quindi di concetti poco presenti nella cultura occidentale o diciamo pure di un Occidente votato alla frenesia dei tempi moderni, visto che il rispetto e la lealtà o gli accordi siglati con una stretta di mano erano prassi corrente del nostro passato prossimo, oggi superato dal desiderio di imbrogliare gli altri e di tirare bidoni perfino ai parenti di primo grado.
Questa richiesta di “un’umanità nella reciprocità” (Umuntu ngumuntu ngabantu, “Io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”, invocata dalla parola Ubuntu) alla fin fine esorta a sostenersi e ad aiutarsi in maniera reciproca, a prendere coscienza non solo dei propri diritti ma anche dei propri doveri, dimenticando affermazioni egoistiche e di privilegio, proprio ciò di cui l’Occidente è oggi malato e lo si riscontra ancora di più nei tempi della pandemia generata dal Covid-19.
Questa nozione o filosofia della fratellanza, nelle sue dimensioni filosofiche e spirituali, può essere considerata come una delle rare caratteristiche delle società africane sopravvissute a seicento anni di schiavitù, colonialismo e imperialismo di ogni tipo che hanno destabilizzato le più piccole comunità e minato le strutture tradizionali per la trasmissione di una sapere di tipo tradizionale. Radicato in molte lingue e culture africane, il pensiero Ubuntu rimane attivo nella concezione del posto dell’individuo nella sua comunità, ma anche nei legami tra i popoli, strutturando una coscienza e una visione del mondo nell’interdipendenza della relazione.
Questo concetto ha così irrigato il pensiero dei movimenti di liberazione nelle esperienze postcoloniali africane degli anni Sessanta, alimentando, per esempio, le aspirazioni alla costruzione di un socialismo africano. Questo pensiero nasce nelle produzioni letterarie e poetiche contemporanee del continente e delle sue diaspore, da Aimé Césaire a Vumbi-Yoka Mudimbé, Edouard Glissant, Alain Mabanckou, Yanick Lahens o Léonora Miano per citare solo alcuni autori di lingua francese. Nella creazione musicale, Fela Kuti o Mariam Makeba rimangono portavoce leggendari di questo pensiero di unità e fratellanza.
Ma la realtà contemporanea, davvero frammentata e priva di ossatura, ci informa anche di fallimenti politici, conflitti sanguinosi e violenze in particolare nei confronti delle comunità LGBTQI+ e delle donne, e di questo bisogna prendere atto. Tuttavia, la filosofia Ubuntu è attualmente riportata in auge da intellettuali, attivisti e produttori in tutti i campi della creazione contemporanea attraverso nuove dinamiche di riassemblaggio di pensieri e immaginazioni che attraversano tutti i continenti, come in un’ansia di riscatto e di riappropriazione delle proprie radici. In un mondo divenuto incerto, smarrito, chiuso in tensioni identitarie e popolato di violenza, questo pensiero filosofico non è solo un’idea astratta da studiare sulle enciclopedie e la mostra intende testimoniare queste dinamiche di ricomposizione del mondo popolato da sogni lucidi, raccogliendo le proposte di una ventina di artisti le cui opere risuonano con la filosofia Ubuntu, da intendersi come risorsa, spazio per inventare, fingere o mediare il mondo reale.
Immaginata come uno spazio polifonico, la mostra permette agli artisti di tessere sottili legami tra la forma e le loro idee da soggetti, punti di vista e posizioni molteplici. La messa in luce di alcune delle questioni più urgenti del nostro tempo, come la distribuzione ineguale della ricchezza e dei poteri, le crisi migratorie e i processi di territorializzazione, la colonizzazione di territori e corpi, le situazioni di oppressione, la trasformazione del nostro rapporto con la natura, partecipa a un processo di abbandono e invoca uno spirito di resistenza.
La mostra intende contrastare i confini geografici e considerare un solo spazio: quello delle riflessioni proposte dagli artisti attraverso narrazioni soggettive e in grado di trasformare il nostro immaginario per contribuire a una nuova intelligibilità del mondo.
Il percorso espositivo inizia con le opere di Joël Andrianomearisoa e Jonathas De Andrade, per poi proseguire con quelle di Serge Alain Nitegeka, Frances Goodman, Lungiswa Gqunta, Nolan Oswald Dennis, Michael Armitage, Meleko Mokgosi, Bili Bidjocka, Daniel Otero Torres, Ibrahim Mahama, Kudzanai Chiurai (in collaborazione con Khanya Mashabela e con la partecipazione di Kenzhero), Richard Kennedy, Sabelo Mlangeni, Kudzanai-Violet Hwami, Grada Kilomba e concludersi con quella di Turiya Magadlela. In definitiva, un percorso ricco e molto articolato.
Bruno Sain
Info:
AA.VV., Ubuntu, un rêve lucide
26/11/2021 – 20/02/2022
Palais de Tokyo
tra la Torre Eiffel e gli Champs Élysées
13, ave. du Président Wilson, Paris
reservation@palaisdetokyo.com
Jonathas de Andrade, Suar a Camisa [Working up a Sweat], 2014. Collection of 120 shirts negotiated with workers, wooden supports, variable dimensions. Exhibition view, “Museu do Homen do Nordeste” 2014-2015, Art Museum of Rio (Brazil). Photo Eduardo Ortega, courtesy of the artist & Vermelho gallery (São Paulo)
Michael Armitage, #mydressmychoice, 2015. Oil on Lubugo bark cloth, 149.9 x 195.6 cm. © Michael Armitage. Photo © White Cube (George Darrell)
Frances Goodman, Endless Hours, 2020. Faux-ongles en acrylique, mousse, résine, silicone, 85 x 130 x 120 cm. Courtesy de l’artiste & SMAC Gallery (Le Cap, Johannesbourg, Stellenbosch)
Richard Kennedy, Prophetess 3, 2020. Sculpture, acrystal et acrylique, 45 x 33 x 26 cm. Photo Matthias Kolb, courtesy de l’artiste & Peres Projects (Berlin)
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