Con grande senso dell’ironia, citando Picasso, Bonomo Faita sostiene: “Io non cerco, le immagini mi trovano”. In queste poche parole è racchiuso tutto il mondo dell’artista Faita: illuminazioni improvvise che diventano narrazione lirica, fresca, immediata, sempre connaturata da un sorriso e da una profonda vena ludica. Sempre a bassa voce e con fine manualità.
Caro Bonomo, se tu non vivessi a Brescia, dove vorresti abitare?
Al mare. O in una metropoli orientale.
In quale modo ti dedichi alla produzione di immagini?
Non ho mai avuto metodo: mi abbandono al flusso delle immagini dell’Arte. Viviamo nell’impero, direi nella tirannia delle immagini. Oggi, in era social, provo avversione per la fotografia e l’uso abnorme che se ne fa. Non credo nella necessità di aggiungere molto altro al già esistente, anzi mi sento spesso tentato da un estremismo iconoclasta. Sono molto poche le immagini davvero necessarie; e ovviamente non sempre ho la presunzione di credere che le mie siano tra queste.
Ti riconosci in qualche maestro o in qualche autore che è stato importante per la tua formazione artistica?
Beh, il quartetto nobile dell’arte italiana: de Chirico, de Pisis, De Dominicis, De Maria… (senza dimenticare il principe De Curtis). Battuta di spirito a parte, l’elenco sarebbe davvero lungo. E i libri… anche letteratura e musica mi influenzano. Ho lavorato spesso sul tema dei libri della formazione e ascolto molta musica.
Il tuo lavoro è a 360 gradi, nel senso che dilati il linguaggio espressivo con qualsiasi tecnica che ti torna disponibile: dal disegno alla fotografia, dalla pittura alla ceramica; sempre però in dimensioni contenute…
Forse mi sarebbero serviti 361 gradi. Resta il “dispiacere” di non essere davvero e soltanto Pittore. Sulle dimensioni dell’opera, penso che troppo spesso l’ego degli artisti produca opere dieci volte più grandi del necessario. Sono scelte.
In queste tue opere c’è sempre molta ironia e una grande rimeditazione sulle immagini della storia dell’arte più recente…
Anche la riflessione che faccio sul lavoro degli artisti ha origine nella formazione: con la terracotta cito Fontana, Boetti, de Chirico… è un materiale che permette la mimesi. Anche se ormai, dopo la fine di Dio, chi può aspettarsi miracoli dall’argilla?
Tu fai parte del gruppo “Portofranco” ideato e promosso da Franco Toselli; puoi raccontare qualcosa di questa avventura e dei tuoi compagni di strada?
Quando negli anni Novanta tutto è iniziato, se ne era andato da poco Alighiero Boetti; è stato naturale che questo artista che aveva messo al mondo il mondo, diventasse felice anello di congiunzione tra prima e dopo, un Nume tutelare per “Portofranco”. Franco Toselli ha unito artisti che corrispondono alla sua visione personale dell’Arte, dopo l’esperienza con le neo-avanguardie. Un lavoro di riduzione rispetto all’ego ipertrofico del sistema, a favore di una intimità dell’opera, che come una piccola luce può rischiarare un buio fitto. L’adesione più partecipata a questo pensiero artistico è venuta da Elena Pontiggia, artefice essa stessa della visione del gruppo. E poi c’è stato Germano Celant che, firmando il libro che storicizza la galleria Toselli (e che ha dichiarato essere il suo libro più bello) centra pienamente il senso del lavoro del gallerista: un continuum mai interrotto. Questo libro, visto ora, mi appare come un testamento del grande critico. In due anni ci hanno lasciato gli amici Lisa Ponti, Gabriele Turola e Paolo Truffa, artisti capaci di visioni feconde… i giovani artisti ancora arrivano, ognuno sorprendente a suo modo a raccogliere una sorta di testimone… gli artisti vanno e vengono, il pensiero e le opere resteranno.
Hai in programma qualche progetto per il 2021?
No.
Bonomo Faita, What is rock, 2008, fotografia cm 10 x 15, courtesy Marina Fossati, Como
Bonomo Faita, Scatola astronomica, 2009 acrilico su cartone, cm 37 x 37, courtesy Galleria Toselli, Milano
Bonomo Faita, Erba e luna, 2011, fotografia dipinta, cm 15 x 20, courtesy Elena Zonca, Milano
È direttore editoriale di Juliet art magazine.
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