Utopia, dal greco (ou-topos), significa “non luogo” o “luogo che non esiste”, impossibile da raggiungere, dove tutto va per il verso giusto e domina il bene (eu-topos). Sebbene l’impresa sia irrealizzabile, il solo tentativo di avvicinarsi a un simile luogo conduce a un miglioramento. Al contrario, si definiscono distopie quei luoghi oscuri dove niente va per il verso giusto, corrispondenti simbolicamente a profezie catastrofiche che fungono da monito: senza un cambiamento immediato, il futuro sarà inevitabilmente disastroso. Il cambiamento richiesto oggi a gran voce, in modo trasversale e pressoché unanime, aspira a un modello di sviluppo sostenibile che possa contrastare la crisi climatica, che possa guardare – seppure da molto lontano – a una possibile nuova utopia.
La mostra Utopiche seduzioni a cura di Matteo Galbiati e Nadia Stefanel presso la Fondazione Dino Zoli di Forlì indaga i rapporti fra arte ed emergenza ambientale con un’attenzione particolare verso il materiale, portando la riflessione a un confronto tra generazioni di artisti e a una revisione del valore attribuito nel tempo a determinati materiali: quello che in passato sembrava innovativo, nella maggior parte dei casi, si è rivelato una maledizione per le nuove generazioni. La mostra stabilisce un dialogo tra i lavori di diciannove artisti contemporanei (che spaziano dalla scultura a opere bidimensionali, da fotografie a interventi site specific, il tutto caratterizzato da una nuova consapevolezza e sensibilità verso l’ambiente) e le opere “vintage” di Piero Manzoni, Piero Gilardi ed Enrico Baj, per i quali plastica e poliuretano rappresentavano il progresso. Il tratto comune è un rinnovato approccio alla materia caratterizzato da una ricerca e una sperimentazione mediante il riciclo e il riuso di scarti o tramite l’utilizzo di sostanze naturali. Attraverso le idee e il saper fare degli artisti, il materiale viene trasfigurato, diventa qualcos’altro: in alcuni casi conserva la sua riconoscibilità richiamando esplicitamente l’emergenza climatica, in altri è deducibile solo a seguito di attenta osservazione, altre volte ancora, invece, non reca in sé più alcuna traccia di ciò che era in partenza.
Un esempio significativo è “Violazione” di Margherita Levo Rosenberg, in cui una massa di filamenti violacei forma una sorta di cespuglio di rovi, a metà strada tra la ramificazione di un corallo e un vegetale alieno. Leggendo la didascalia, si scopre che la materia che compone l’opera è ricavata da lastre radiografiche di scarto accuratamente tagliate in strisce sottili, poi annodate fra loro. È una scelta precisa da parte dell’artista, che intende indagare nel profondo e portare alla luce ciò che è coperto da stratificazioni sia fisiche sia psicologiche. Complementare al viola è il “Giallo consumo” di Michele di Pirro, artista per il quale il riutilizzo e il riciclo dei materiali sono imprescindibili. L’opera si presenta come un quadrato color senape dalla superficie fibrosa, densa e soffice. In questo caso è l’impatto olfattivo a svelare il materiale: avvicinandosi si sente un forte odore di fumo e si comprende che il tappeto giallognolo è ottenuto dalla giustapposizione di batuffoli di acetato ricavati da filtri di sigaretta. L’artista ha personalmente raccolto i mozziconi e li ha intelligentemente applicati su uno strato di velcro: è un gesto di denuncia, ma anche un esempio di come si possa elevare allo statuto di arte uno tra i materiali meno nobili che si possano immaginare.
La trasfigurazione avviene anche nel caso di Giulia Nelli, che infesta gli spazi della Fondazione Dino Zoli con una grande tela nera bucata. Da qui si diparte una sorta di reticolato asimmetrico i cui filamenti – o tentacoli – sembrano aggrapparsi dove trovano spazio. “Vita nelle pieghe della Terra” è il frutto del riciclo di collant in poliammide ed elastan, riorganizzati in un nuovo corpo che invita a riflettere su quanto tutto sia interconnesso e sul fatto che l’unica speranza di salvezza è la cooperazione. L’uso di scarti dell’industria della moda accompagna anche il lavoro di Afran, che con “Riscossa del Sacro” ripensa il denim ricavato da vecchi jeans come sculture a forma di testa. Le opere fanno pensare sia a maschere africane – che richiamano le origini dell’artista – sia a volti inquietanti provenienti da un futuro post-apocalittico. L’autore rimodella il tessuto e rielabora passanti, bottoni e cerniere che diventano dettagli del volto delle entità rappresentate. Il sottotitolo della mostra recita: “Dai nuovi materiali alla recycled art”. Ma nel caso di chi lavora col tessile sarebbe meglio parlare di upcycled art. Questa pratica, che in origine indica il “fare con quello che si ha” attraverso il riuso creativo di oggetti non più utili in situazioni di crisi, diviene successivamente un mezzo di espressione personale nell’ambito delle controculture hippie e poi punk, per poi assumere lo statuto di un vero e proprio approccio creativo che mette in discussione il concetto di nuovo e trova infinite possibilità dalla limitazione del campo d’azione ai materiali di seconda mano.
Il belga Martin Margiela, che il New York Magazine definì come la reincarnazione di Duchamp sotto forma di fashion designer, già dagli anni ‘90 trasformava coperte in cappotti, vecchi jeans in abiti e calzini in maglioni. Più che padre del ready-made, basato su un approccio re-use, il designer belga potrebbe essere considerato forse più un pioniere dell’upcycling, e in quanto tale un sovvertitore dell’assioma nuovo=bello. In questo senso si assottiglia la differenza tra arte e moda, che, simili per attitudine, attingono agli stessi materiali pur risultando in oggetti diversi. Se tutti comprassimo abbigliamento di seconda mano o ricavato da abiti riciclati, questo avrebbe un impatto positivo sostanziale sull’ambiente; parimenti, l’arte si fa agente attivo nell’elaborare concetti, critiche e proposte relativamente alle tematiche ambientali, con particolare riferimento al cambiamento climatico: può farsi modello, veicolo di idee, ambito di sperimentazione o semplicemente indice.
Il riciclo è la pratica di ritrasformare i rifiuti in materie prime, ed è fondamentale per Sasha Vinci, artista attento a produrre oggetti nel rispetto dell’ambiente usando pigmenti di recupero o biologici. Vinci, in questo caso, prende l’alabastro necessario alla sua installazione dagli scarti di un mastro artigiano. “Non si disegna il cielo, Volterra canto I” è composta da 21 lastre del minerale disposte in una striscia luminosa che riporta l’incisione dello skyline di Volterra su un pentagramma musicale. La melodia che se ottiene, risuona negli spazi espositivi.
“Autoproduction” di Lulù Nuti ricicla invece gesso, cemento e metallo di scarto provenienti da altri progetti realizzati nel suo studio. Ne risulta una scultura, un leggio dotato di spina vertebrale che conserva dentro di sé la sua storia. Sulla cima racchiude un piccolo book che contiene fotografie di gioielli di famiglia e di altre opere impaginate secondo un ritmo specifico di giustapposizioni. Il recupero può verificarsi anche attraverso il concetto secondo cui ciò che viene scartato, dimenticato o cancellato ritorna alla luce in una nuova forma, rendendo viva la memoria. Anche per Marina Gasperini lo scarto diventa interessante quanto l’opera vera e propria, come nel caso di “Bandiera rossa”. Partendo da materiali tessili di recupero, ovvero una pezza Chanel di colore rosso acceso, l’artista intaglia la scritta “Anger is a Political Atlas” con l’intento di utilizzare le lettere per una performance urbana nella città di Bruxelles, ma poi è la stessa maschera di ritaglio che diviene opera d’arte, sovrapponendo i confini tra positivo e negativo.
La seconda parte del sottotitolo della mostra recita “Da Piero Manzoni alle ultime generazioni”. Passati sessant’anni, una differenza è certa: negli anni ‘60 del Novecento il tempo sembrava infinito e il futuro radioso, mentre la generazione attuale appare pervasa dalla rabbia, oppressa dalle domande a cui non viene data risposta, è una generazione che sembra implodere per il timore di essere l’ultima. Il titolo della mostra sembra riferirsi alle utopiche seduzioni di un tempo, ma può essere anche interpretato al presente: le opere esposte suggeriscono anche le possibilità dell’arte di creare modelli e proporre soluzioni che possano sedurre l’uomo, ormai consapevole dell’emergenza climatica, verso uno sviluppo sostenibile.
Info:
AA.VV., Utopiche Seduzioni. Dai nuovi materiali alla Recycled Art. Da Piero Manzoni alle ultime generazioni
a cura di Nadia Stefanel e Matteo Galbiati
28/10/2023 – 24/03/2024
Fondazione Dino Zoli
viale Bologna 288, Forlì
www.fondazionedinozoli.com
Originario di Bologna, studia design della moda e arti multimediali allo IUAV di Venezia. Crede nella possibilità di sconfinamento tra le discipline e che l’arte possa avere un ruolo attivo nell’abbattere le disuguaglianze e unire le persone creando comunità.
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