Una delle opere più suggestive della 57esima Biennale di Venezia era Living Dog Among Dead Lions di Vajiko Chachkhiani (Tbilisi, 1985) nel Padiglione Georgia, dove l’artista aveva montato una piccola casa in legno abbandonata proveniente dalle campagne del suo Paese natale, completa di mobili, quadri e altri semplici oggetti quotidiani, dotandola di un sistema di irrigazione interno che simulava una pioggia continua. Una fioca luce gialla illuminava le stanze disadorne, visibili solo attraverso le finestre parzialmente schermate da tende che invitavano lo spettatore ad accostarsi con cautela, come se fosse testimone di una stregoneria che da un momento all’altro avrebbe potuto coinvolgerlo. Durante i 6 mesi in cui è rimasta allestita, il naturale processo di marcescenza dei materiali esposti all’umidità e al ristagno d’acqua generava una sorta di drammaturgia spontanea che induceva a meditare (o meglio a percepire) le implicazioni esistenziali della resistenza e del cambiamento. L’opera era un omaggio allo spirito di adattamento che il popolo georgiano ha dimostrato nei secoli, fronteggiando le invasioni musulmane, quella zarista, la dittatura sovietica e la difficile transizione verso la democrazia. Il “cane vivo in mezzo ai leoni morti” allude quindi all’uomo comune, che dalla maestosa natura caucasica trae la forza di reagire alle prove di sopravvivenza a cui la storia periodicamente lo sottopone.
Parte idealmente da questi presupposti anche Glass Ghosts, la nuova mostra di Vajiko Chachkhiani alla galleria de’ Foscherari, che sin dal titolo suggerisce come fragilità e assenza siano componenti essenziali nella ricerca dell’artista, che attinge alla cultura tradizionale georgiana come inesauribile serbatoio di metafore della precarietà dell’essere umano di fronte al destino. Anche qui troviamo una labile traccia di casa, evocata da una carta da parati ingiallita che riveste le pareti della galleria, sulla quale si individuano le sagome lasciate bianche di misteriosi quadri rimossi, come se fossero stati trasportati altrove per metterli in salvo da qualche improvvisa calamità. La muta eloquenza di queste immagini fantasma mette in scena il turbamento che si prova “alla presenza dell’assenza”, quando ci si trova davanti ai resti sibillini di qualcosa che è stato ma che ora non è più, alla lapidaria incompletezza di segnali frammentari che non conducono da nessuna parte ma che proprio per questo ingigantiscono la mancanza di ciò che è svanito.
Rispetto alla casa di Living Dog Among Dead Lions qui la prospettiva è ribaltata perché lo spettatore, dopo aver varcato la soglia della galleria, si ritrova suo malgrado all’interno della casa, anche se l’astrazione concettualizzata delle sue pareti non la rende immediatamente riconoscibile, come una trappola che scatta quando è già troppo tardi per tornare indietro. Questa volta dobbiamo guardare a terra, dove cresce una strana popolazione di zucche dentate e ungulate irregolarmente disseminate su tutta la superficie del pavimento, sul quale bisogna camminare con attenzione per non rischiare di calpestarne una. Queste schiere di feticci, che ostentano gli attributi aggressivi di bestie selvatiche ormai definitivamente ammansite dalla morte, testimoniano la nascita di una nuova stirpe di creature ostinate, fantasmi ibridi scaturiti dall’assemblaggio di frutti e animali senza più polpa, carne e interiora. Immobili e diffidenti, suscitano allo stesso tempo attrazione e timore concretizzando la radicale alterità del regno animale e preconizzando le tragiche conseguenze della rottura del delicato equilibrio su cui si fonda la convivenza tra le differenti specie viventi che popolano il nostro pianeta.
Anche l’installazione in mostra si ispira a un disastro naturale avvenuto a Tbilisi, un’inondazione del fiume Were che costò la vita a diciannove persone e a centinaia di animali dello zoo locale. In quell’occasione, molte delle bestie sopravvissute che la furia delle acque aveva liberato dalle gabbie iniziarono a vagare per la città, rendendo ancora più surreale il panorama delle strade allagate e costituendo un reale pericolo per gli abitanti, uno dei quali venne aggredito mortalmente da una tigre. La strana individualità delle zucche zoomorfe che vediamo in galleria (alcune delle quali sono state create proprio con artigli e denti prelevati dai cadaveri di quegli animali) materializza una condizione esistenziale di incomunicabilità e diffidenza che indaga la solitudine e la fragilità di un essere avulso dal proprio habitat e perennemente costretto a vigilare per difendersi da ignoti pericoli.
Scavando nelle implicazioni metaforiche e formali dell’assenza, l’artista individua corrispondenze e similitudini tra elementi apparentemente irrelati, come le zucche e le immagini latenti alle pareti: entrambe infatti sono vuote, circondano una mancanza incolmabile e sono prive di casa e di identità. La capacità di Chachkhiani di suscitare un intenso coinvolgimento emotivo scaturisce dalla sensibilità con cui riesce a sondare il rimosso dell’immaginario collettivo a partire da materiali e oggetti semplici, che nelle sue mani diventano amuleti di una ritualità laica che opera nell’intersezione tra vita e morte per sollevare questioni universali. Le sue installazioni hanno la stessa vocazione mitopoietica delle favole antiche e sono il risultato di un analogo processo di frammentazione, spostamento e riuso di unità semantiche che ogni volta si riaggregano in modo diverso per formare nuove storie. E proprio quest’aspetto, forse, dimostra più di ogni altro la sua stretta relazione con il suo Paese d’origine, la Georgia, una terra permeata di racconti sin dalla notte dei tempi, quando Prometeo era incatenato a una roccia nelle montagne del Caucaso e il vello d’oro lì custodito venne rubato da Giasone con l’aiuto di Medea.
Info:
Vajiko Chachkhiani. Glass Ghosts
19 gennaio – 23 marzo 2019
Galleria de’ Foscherari
Via Castiglione 2b Bologna
For all images: Vajiko Chachkhiani. Glass Ghosts, installation view at de’ Foscherari, Bologna
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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