Classe 1969. Italiana e naturalizzata statunitense. Pittrice, scultrice, disegnatrice, appassionata di cinema e fotografia. Visionaria di performances, spesso definite “tableau vivant”. Attiva nel terreno delle arti visive a livello internazionale, già dagli anni ‘90, Vanessa Beecroft è tra le prime donne artiste a essere entrata in contatto con i grandi marchi della moda dai quali ha, in parte, preso in prestito quell’idea di femminile, priva di rotondità e fedele a una verticalità spiccata, androgina, ripetitiva e sacra.
Il focus, da cui guarda il mondo, è la sua idea di donna ma col senso della composizione figurativa, cara alla pittura rinascimentale, che l’artista rielabora in sculture viventi ovvero donne nude, seminude e simili tra loro, in una fissità di pensiero e orizzonte emotivo-visivo da mostrare al pubblico: il vero testimone. Proprio questa nudità rende “seriali” le donne, che sceglie per le sue performances, con una grammatica ripetitiva, appartenente al nostro tempo e all’immagine mediatica e social di una donna uguale, verticale, magra, silenziosa. Si crea, così, una visione che può creare disagio e turbamento in chi la guarda come un vero squarcio, una frattura del tempo sospeso. C’è, quindi, un processo preciso dietro le sue visioni. Ogni performance prende le iniziali del suo nome, seguita da un numero progressivo da ipotizzare un metodo di lavoro, “il metodo VB”, per definire le apostrofi del tempo, la magrezza del divenire, la disappetenza del corpo femminile di questo presente, tra luci e ombre da consegnare allo sguardo retinico del pubblico ma soprattutto all’obiettivo fotografico che ne sancisce una certa sacralità.
In questo modo, Beecroft blocca e immortala il nostro presente, segnando la vacuità stessa dell’esistere con l’epidermide femminile: liscia, illuminata, fissa, colorata. Non sono del tutto assenti gli uomini nelle sue visioni performative e ne è una testimonianza la sua prima performance con uomini, pensata per il MAC di Milano, 2009. Si tratta di VB 65 con al centro il dramma della questione dell’immigrazione, sempre attuale, con venti immigrati africani seduti attorno a un tavolo trasparente di dodici metri. Si presentano vestiti sia con abiti da sera sia con vestiti sgualciti e fuori misura, nell’atto di mangiare pane nero e carne senza posate. Una metafora potentissima non solo per la composizione visiva che richiama l’idea dell’ultima cena ma anche per aver dato forma a una sacralità universale che non nasconde la crudeltà del nostro mondo; al contrario, la ripropone in modo cruento, venerabile e dissacrante, senza soluzione.
Di fatto, un’artista visionaria come lei non propone risposte ma riflessioni, deduzioni, domande, dubbi, squarci sul nostro modo di guardare, a partire dal corpo stesso delle donne che prendono parte alle sue composizioni, con i loro demoni e paure. Donne, molte volte fisicamente simili a lei stessa, che rappresentano le altre mille sfaccettature del proprio sé nel rapportarsi e confrontarsi con le mode del tempo fatte di scarpe, stivali, collant, acconciature, parrucche, colori, make up, mutandine, reggiseni. Sono ninfe, demoni, divinità, madri, sorelle, figlie, modelle, simboli, nonché proiezioni della sua mente visionaria e registica – e non a caso infatti Beecroft è una appassionata di Godard e Rossellini – sospese tra un istante finito e uno eterno. A volte indossano indumenti di tendenza, ancora attuali, come i collant bianchi della performance VB 26, 1997, realizzata nella nota Galleria Lia Rumma di Milano.
In VB 52, invece, sono interpreti dell’atto più sacro e profano come l’atto del mangiare: argomento delicato nella vita di Beecroft e della sua nutrizione, che definisce “controllata” e con un preciso numero di calorie. Una performance, particolarmente eccentrica e visionaria, realizzata al Castello di Rivoli – Museo d’Arte di Torino nel 2003, legata a un tema talmente attuale al punto che le sue performance potrebbero essere considerate universalmente classiche, come avrebbe detto Italo Calvino. Altro esempio con la performance VB 70, dove le donne sono statue colorate, su basi di marmo. Si muovono lentamente, enfatizzando la dicotomia tra pelle e marmo, tra l’immortalità di quest’ultimo e la precarietà terrena dell’epidermide e del corpo illusoriamente innalzato, a metafora immortale e marmorea anche solo per pochi istanti.
Si potrebbe anche dire che le sue composizioni sono «apparenze nude» come direbbe Octavio Paz, in un mondo talmente madido di immagini, rumori, clic, oggetti, guerre e fumo che bisogna ricominciare a dare posto alle visioni. Visioni che mettono disagio affinché ci conducano nella sfera dell’intimo, del personale, dell’eros, del primordiale che funziona come una «apparizione» lontana, universale. Infatti, davanti alle sue opere viventi, il pubblico sa che è davanti a un tempo raro, unico e irripetibile perché poi sarà l’immagine fotografica – più ancora del video – a decretarne testimonianza futura.
In questa maniera, Beecroft ha fatto suo questo processo di consegna delle sue visioni più di trent’anni fa attraverso lo scatto fotografico che condensa in sé anche quel mistero sacro della creazione e composizione artistica. Ha creato, quindi, un legame venoso e arterioso con l’obiettivo, quale intermezzo tra lei e la performance, tra il reale e il pubblico: prima dei social, prima di qualsiasi Iphone e degli smartphone e prima di ogni applicazione fotografica di tendenza. Lo ha fatto, per la prima volta, negli anni in cui la fotografia era considerata già un’arte definita e ben distinta dalle arti visive. Da vera antesignana, è stata capace di anticipare i processi del tempo e creare un modus operandi che blocca il tempo e immortala le tendenze – brutali o divine che siano – ma con una costante traccia di sacralità di opere viventi che riportano tutti noi ai nostri demoni e alle forze dell’eros.
Info:
Attraverso l’arte sente l’esigenza di accostarsi sempre di più alla natura, decidendo di creare una residenza artistica sull’Etna come un “rifugio per l’arte contemporanea” per artisti e studiosi. Nasce così Nake residenza artistica. Vince il Premio Etna Responsabile 2015. Nel 2017, è invitata nella Sala Zuccari, Senato della Repubblica, come critico d’arte. Scrive per artisti italiani e stranieri. Curatrice del primo Museo d’Arte Contemporanea dell’Etna e del progetto “Etna Contemporanea”.
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