La 18ª Mostra Internazionale di Architettura dal titolo “The Laboratory of the Future” a cura di Lesley Lokko, organizzata dalla Biennale di Venezia, offre una incredibile quantità di proposte per cambiare il mondo. Si va dalle più semplici, come quella del padiglione del Niger, presente per la prima volta, all’isola di San Servolo, dal titolo “Archifusion” a quelle più utopiche e sorprendenti, come quella nel Padiglione Centrale ai Giardini. Nella sezione Force Majeure, è infatti dedicato a Olalekan Jeyifous un grande spazio con la sua installazione, ACE/AAP, che esplora le armonie e le tensioni locali, transnazionali e diasporiche di un’eco-fiction africana retrofuturista ambientata nella linea temporale alternativa dell’anno 1X72. “The Laboratory of the Future” è una mostra divisa in sei parti, che conta 89 partecipanti di cui oltre la metà provenienti dall’Africa o dalla diaspora africana. Inizia nel Padiglione Centrale, dove sono stati riuniti 16 studi che rappresentano un distillato di Force Majeure (Forza maggiore) della produzione architettonica africana e diasporica. Abbiamo poi la sezione Dangerous Liaisons (“Relazioni pericolose”) nel complesso dell’Arsenale, a Forte Marghera, e a Mestre – affiancata a quella dei “Progetti Speciali” della curatrice. Poi abbiamo i Guests from the Future (“Ospiti dal futuro”), il cui lavoro si confronta direttamente con i due temi della mostra. Proprio nel Padiglione Centrale si trovano le opere di alcuni tra i più rappresentativi practitioner attivi oggi, africani e provenienti dalla diaspora africana, di cui Olalekan Jeyifous fa parte con il suo progetto ambientato, avvalendosi di media digitali e video sperimentali, in un “protoporto” astratto, una sorta di sala d’aspetto.
L’artista immagina un suo mondo dove, sulla scia del movimento panafricano e della decolonizzazione africana, le infrastrutture imperialiste dedicate allo sfruttamento economico e all’estrazione di risorse sono state smantellate, mentre i gruppi ambientalisti locali si sono consolidati in un African Conservation Effort (ACE), utilizzando la conoscenza indigena per riparare ai danni dell’era coloniale. Si parte quindi dalla riflessione sui temi della decarbonizzazione e della decolonizzazione, come da indicazioni della curatrice, per andare oltre, immaginandosi una rivalsa smaccata nei confronti dell’Occidente. Ed ecco la motivazione del premio dato all’artista: «Leone d’Argento per un promettente giovane partecipante alla mostra The Laboratory of the Future a Olalekan Jeyifous per una installazione multimediale che esplora una pratica di costruzione del mondo capace di allargare le prospettive e l’immaginazione del pubblico, offrendo visioni di un futuro decolonizzato e decarbonizzato». Per quanto riguarda le utopie, nel Padiglione francese una installazione sferica – un teatro sferico, ricoperto da uno strato di alluminio argentato – Ball Theater © Muoto + Stanishev et La Sagna ospita un palcoscenico dove gli artisti e il pubblico possono interagire. Si tratta di un luogo immersivo e sperimentale, di celebrazione e discussione. Anche riconquistare uno spazio per giocare a basket risulta utopico per il Padiglione Messicano, dal titolo Infraestructura utopica.
È utopico anche il proposito di sfondare i muri per mettere in comunicazione due Padiglioni adiacenti, come quello della Svizzera, dominato dal gigantesco tappeto che riporta la planimetria del Padiglione di Giacometti e quello di Scarpa, e quello del Venezuela, che si occupa di ristrutturazione. Sulla stessa scia si rivela il progetto per rendere accessibile alla comunità veneziana, attraverso un ponte proposto dal Padiglione austriaco, la Biennale e il quartiere Sant’Elena. Non meno proiettato nel futuro è il Padiglione del Lussemburgo, trasformato in un laboratorio lunare, in cui trova spazio Down to Earth, il progetto di Francelle Cane e Marija Mari, che mostra una performance di estrazione di minerali e metalli rari a partire dallo sviluppo di insediamenti umani sulla Luna. Un discorso prettamente politico, a volte in bilico tra realtà e immaginazione, è quello del Padiglione Australia, in cui Unsettling Queenstown evidenzia l’eredità coloniale dell’Australia alla fine della Seconda Era Elisabettiana, trattando Queenstown come un emblema della lotta decolonizzatrice in tutto il mondo. Tra versioni di Queenstown reali e immaginarie, la mostra esplora e mette in discussione le relazioni tra le persone e l’ambiente sotto la logica del colonialismo e dell’estrazione delle risorse. Anche il Padiglione della Cina, presente nella sezione Dangerous Liaisons alle Corderie dell’arsenale, con l’installazione Investigating Xinjiang’s Network of Detenction Camps di Killing Architects affronta lo spinoso argomento dei campi di detenzione nello Xinjiang e, di conseguenza, della violazione di diritti umani, suscitando le reazioni delle autorità cinesi. Nel Padiglione della Polonia, invece, si mette in discussione la possibilità da parte delle nuove tecnologie di proporre soluzioni per qualsiasi problema, come dimostrano gli scheletri di quattro abitazioni realizzate in scala 1:1.
Sospeso tra dimensione materiale e immateriale è il Padiglione Nazionale dell’Arabia Saudita, che presenta il progetto IRTH إرث (“eredità” in arabo), concepito dall’architetto AlBara Saimaldahar, fondatore e direttore creativo dello studio di design Dahr, situato a Jeddah, e curato dalle due sorelle Basma e Noura Bouzo, co-fondatrici di &bouqu, società di consulenza creativa e culturale di Riyadh. Infinite varianti sono proposte dall’archivio nella forma di ricettario da parte del Padiglione della Spagna a quello dell’Uruguay, il quale è un laboratorio per il futuro del legno come materiale, coinvolgendo musica, cultura visiva e architettura. L’Uzbekistan, con Unbuild Together: Archaism vs. Modernity, si rifà al patrimonio architettonico per immaginare il proprio futuro e sfidare il concetto di modernità. Particolarmente interessante il Padiglione della Gran Bretagna, dal titolo Dancing Before the Moon, che affronta il tema dell’architettura della diaspora attraverso la lente pre-coloniale, celebrandone le varietà architettoniche con varie installazioni sorprendenti, come quella di Yussef Agbo-Ola, nato nella Virginia rurale in una famiglia al contempo nigeriana, afroamericana e cherokee, che presenta con Muluku 6 Bone Temple un insieme di pelli di cotone organico, ispirate agli elementi architettonici tradizionali delle culture Yoruba e Cherokee. Sono motivi ricamati che riflettono i sistemi di credenze cosmologiche proprie di queste culture. Non poteva che essere collegato col suo presente drammatico, invece, il Padiglione dell’Ucraina all’Arsenale (nelle Sale d’Armi) con uno spazio buio, simbolo dei luoghi abbandonati che possono diventare luoghi vitali per progettare il futuro.
Sull’altro fronte, quello dell’intervento nella realtà con progetti pratici, anche semplici, si citava come esempio il Padiglione del Niger, con il Commissario Souleymane Ibrahim e la curatela di Boris Brollo che afferma: «In ARCHIfusion si approfondisce il concetto di collaborazione nel senso più ampio di una “bottega/laboratorio” allargato”. Qui troviamo il Brique Magique, un mattone, “riformato” dallo studio di architettura Mauro Peloso, che può essere confezionato sempre in terra cruda, ma con fori interni e una forma diversa, con la possibilità di costruire murature di maggior spessore a parità di materiale utilizzato. Quello del Padiglione del Perù è un progetto di gestione collettiva del territorio del dipartimento di San Martín, in cui i rappresentanti delle comunità indigene Kichwa, Awajún e Shawi, quelle meticce e le istituzioni educative delle province di El Dorado, Lamas e San Martín, si impegnano a costruire un legame tra comunità, scuola e territorio. Con Walkers in Amazonia il Padiglione presenta 64 calendari comunitari che danno visibilità a un fenomeno contemporaneo di resistenza collettiva nella lotta per i diritti territoriali indigeni e civili, evidenziando una tecnologia che rischia di scomparire e che valorizza e reinventa le pratiche ancestrali. È una riflessione sul cambiamento climatico, sulla deforestazione, sul degrado ambientale delle foreste amazzoniche e sulla perdita interculturale, con un appello all’azione.
Da ultimo, il collettivo Fosbury Architecture, formato da Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Nicola Campri, Veronica Caprino, Claudia Mainardi, cura il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini presso l’Arsenale, con il sostegno della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura. Nove interventi site-specific in altrettanti luoghi selezionati in tutto il territorio italiano, caratterizzati dalla prima fase – Spaziale presenta – propedeutica alla seconda fase. Il titolo della mostra è SPAZIALE: Ognuno appartiene a tutti gli altri.
Info:
18a Mostra Internazionale di Architettura di Venezia
20/05/2023 – 26/11/2023
Venezia
Emanuele Magri insegna Storia dell’Arte a Milano. Dal 2007 scrive dall’estero per Juliet art Magazine. Dagli anni settanta si occupa di scrittura e arti visive. Ha creato mondi tassonomicamente definiti, nei quali sperimenta l’autoreferenzialità del linguaggio, come “La Setta delle S’arte” nella quale i vestiti rituali sono fatti partendo da parole con più significati, il “Trattato di artologia genetica” in cui si configura una serie di piante ottenute da innesti di organi umani, di occhi, mani, bocche, ecc, e il progetto “Fandonia” una città in cui tutto è doppio e ibrido.
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