Questa edizione online offre la possibilità di condividere il contributo di William Kentridge alla mia indagine sul ruolo degli archivi privati dei creativi uscita nell’ultimo numero (189) di “Juliet” a stampa insieme ad altre autorevoli testimonianze e a un testo introduttivo che motiva il nuovo servizio. Per giunta dà modo, a chi lo desidera, di ascoltare le sue risposte verbali in lingua inglese e di visualizzare più immagini.
In questo written-panel mi sono rivolto ancora al geniale artista perché, oltre a essere un protagonista tra i più attivi e rappresentativi della scena artistica internazionale, fa del proprio archivio un laboratorio di creatività sperimentale, da cui deriva una produzione multimediale di alta qualità estetica ed etica.
Va ricordato che Kentridge fa interagire sapientemente tradizione e innovazione, cultura storica e contemporanea, rivendicazione e trascendenza; tecnologie tradizionali e nuove; arti visive, letteratura, cinema, musica, danza, teatro, installazione, performance… Un mix di componenti che riesce a coinvolgere gli spettatori in senso plurisensoriale, poetico ed emozionale, stimolando una profonda riflessione sulla realtà socio-economica, culturale e politica del nostro tempo. Così la sua mission, spirituale e materiale, acquista un valore universale.
Fonte principale della sua opera, aristocratica e popolare, è la condizione umana del passato e attuale in Sudafrica (dove egli vive e lavora), ma affronta, sempre con forte impegno civile, anche tematiche più estese non solo geograficamente, come disuguaglianza, ingiustizia, emarginazione. L’intervista che segue – rilasciatami attraverso un file audio all’indomani dell’inaugurazione della sua complessa performance, in prima mondiale, nella enorme Turbine Hall della Tate Modern di Londra – svela aspetti inediti della pratica d’archivio e del suo metodo operativo.
William Kentridge [che risponde attraverso un file audio]: Questo è un messaggio da Kentridge a Luciano Marucci; dal mio studio di Johannesburg, in una fredda sera di giovedì 19 luglio 2018.
Le tue domande sull’archivio sono troppo estrose per me, ma sono contento di mantenerle e le inserirò in un file di materiale grezzo da utilizzare quando si farà un progetto sugli artisti che si interrogano su cose che non capiscono e, come tale, questa lista di domande entrerà a far parte del mio archivio.
Forse è più utile che io ti parli per qualche minuto del significato che attribuisco ad esso.
Il primo deposito del mio archivio è in tre posti, in scatole di cartone contenenti vecchie fotografie, penso dagli anni Novanta e anche più indietro, quando ero solito stampare le foto, un insieme di fotografie personali, a volte ritagli di giornali, fotografie che ho scattato io stesso. Sono state stampate a misura di cartolina postale, alcune in bianco e nero. Accanto a esse c’è una serie di cassetti dove sono raccolte diverse frasi prese da pagine di libri che ho usato in vari progetti. Il tutto è stabilmente nello studio come una sorta di materia prima. In un certo senso è un archivio di progetti d’artista che, come dici tu, potrebbero interessare i curatori, ma è anche un archivio esterno che io consulto quando inizio nuovi progetti per trarre frasi o parole. Il secondo elemento dell’archivio è una mensola su cui si trovano tutti i miei taccuini Moleskine con degli schizzi, principalmente appunti e frasi che sono stati accumulati negli anni e su cui lavoro sempre. Quindi sono la documentazione del lavoro fatto, ma anche il materiale da poter sfogliare di nuovo per altri progetti. Infatti, molte parole migrano da un progetto all’altro. Fino a poco tempo fa andare all’archivio significava recarsi in biblioteca a sfogliare libri. Potevo fare ciò personalmente oppure mandare uno dei miei assistenti di studio. Ora posso navigare quasi sempre in internet per cercare quello di cui ho bisogno. Se mi occorre l’immagine di una maschera antigas italiana della Prima Guerra Mondiale del 1915, invece di consultare interi libri sulla Guerra Mondiale, inserisco le parole “maschera antigas italiana del 1915” e su Google mi appaiono subito quattromila immagini. Io navigo molto su internet, ma le immagini di Google per me sono solo di utile riferimento, non entrano mai a far parte del mio archivio, sono appena intraviste sullo schermo, poi scompaiono nel cloud, perché le considero molto impersonali. Le tracce fisiche degli schizzi, degli appunti, delle foto di famiglia e di altro che ho scattato restano i riferimenti del mio lavoro. Hanno una qualità molto diversa. Io capisco quando i curatori sono interessati alle tracce pre-digitali nel mio lavoro, tuttavia non sono sicuro quanto lo influenzino, se sto lavorando in modo multidisciplinare oppure no. Le risorse che cerco vanno ovviamente dall’ascolto della musica alla lettura di articoli dei giornali, di quelli accademici e alla ricerca di immagini. Certamente questo viene ridotto dall’uso di internet, in quanto è meno probabile imbattersi in qualcosa che ha a che fare con il soggetto della tua materia, ma può essere la pagina successiva di una enciclopedia dalla quale potresti essere attratto.
Domanda 4: È la sede dove pratichi l’ibridazione inventiva di tecniche multimediali interattive?
Assolutamente no. Tutto viene fatto nello studio. L’archivio è un set. Magari da due mensole viene preso ciò che serve e messo sul tavolo, così entra nello studio. Finché non è per me visibile e non posso toccarlo, non lo sento compreso nel processo del fare, anche se so che ci sono libri che trattano certi argomenti. Quando lavoro a un progetto nuovo, generalmente trovo tante pubblicazioni nella biblioteca della mia abitazione, e le porto in studio, oppure sono edizioni che ho letto per altri scopi. Esse stanno nel mio studio per la durata del progetto e formano l’archivio che consulto con altre persone che lavorano con me. Solo a progetto finito verranno riportate in biblioteca. Io presumo di lavorare in una forma di ibridazione. Metto in opera diverse tecniche di espressione come musica, danza, disegno e progettazione. È il lavoro dello studio, di coloro che prendono parte al progetto, di quelli che si esibiscono, dei collaboratori, dei musicisti, dei ballerini… Sebbene non possiamo consultare l’archivio nei dettagli, lo abbiamo come punto di riferimento, per esempio per renderci conto di come un ballo veniva eseguito e quale suono aveva la musica.
Domanda 6: Attualmente gli elementi necessari per realizzare opere multiformi a tema sono prelevati maggiormente dalla tua ricca documentazione fisica e dall’esperienza quotidiana oppure dal web?
È un mix, una miscela di cose che vengono trovate anche nel web. Per l’ultimo progetto [The Head & The Load, performance sui Sudafricani alla Prima Guerra Mondiale del luglio scorso alla Turbine Halle della Tate Modern di Londra] abbiamo trovato alcune immagini di carriers, uno o due articoli, molti riferimenti visuali, ma la storia della Prima Guerra Mondiale era per lo più sui libri. Se mi serviva sapere come era il volto di John Chilembwe [pastore ed educatore battista (1871-1915), una delle prime figure della resistenza al colonialismo, celebrato in Malawi il 15 gennaio come un eroe dell’indipendenza] avrei potuto trovarla sul web e ciò è certamente importante. So che alcuni curatori sono interessati agli oggetti fisici di cui gli artisti si circondano. Infatti, mie foto e notebooks che ho descritto sono stati esposti in una mostra, ma spero che torneranno presto sulle mensole dove dovrebbero essere.
Non sono sicuro se quanto ho detto risponda alle tue domande in relazione alla funzione del mio archivio.
Domanda 1: La documentazione e le memorie collettive che usi per le tue opere tendono a insegnare agli osservatori a riflettere sulla realtà socio-culturale del presente e a immaginare il futuro?
Non ho idea. Dovresti dare tu una risposta a questo.
Domanda 2: Esse possono anche stimolare nuove ideazioni?
Nel lavoro d’arte sì. Se è l’archivio che lo fa o la documentazione non potrei dirlo, ma quest’ultima è importante per l’opera d’arte e l’opera d’arte lo è per la gente che può trovare una connessione, un legame con ciò che le viene mostrato.
Ok. Spero che quanto ho detto risponda ad alcune delle tue domande e che io ti abbia dato sufficienti informazioni sul mio archivio. È stato un piacere parlare per te e ti auguro una buona serata.
a cura di Luciano Marucci
(Traduzione di Serena Fioravanti dal file audio in inglese inviato da Anne McIlleron dello Studio William Kentridge)
[Testo riportato anche in “Estetica ed Etica degli Archivi Privati. Il ruolo della documentazione fisica in era digitale”, “Juliet” art magazine n. 189, pp. 34-43, ottobre-novembre 2018. Per ascoltare le risposte dell’artista in inglese attivare il file audio.]
William Kentridge, “Double ports”, 12-2013
Disegni per “Tango for Page Turning”, 2013 (particolare)
Tavolo da lavoro, Studio William Kentridge a Johannesburg, 2010
William Kentridge lavora con Gerhard Marx alle sculture per il film “Return”, 2008
WK,“Autoritratto come una caffettiera”, 2012
Laboratorio per “The Head & the Load”, Johannesburg, 2017 (ph Stella Olivier)
Sono Luciano Marucci, nato per caso ad Arezzo e ho l’età che dimostro… Dopo un periodo in cui mi sono dedicato al giornalismo, all’ecologia applicata, all’educazione ambientale e ai viaggi nel mondo, come critico d’arte ho collaborato saltuariamente a riviste specializzate (“Flash Art”, “Arte e Critica”, “Segno”, “Hortus”, “Ali”) e a periodici di cultura varia. Dal 1991 in “Juliet Art Magazine” (a stampa e nell’edizione on line) pubblico regolarmente ampi servizi su tematiche interdisciplinari (coinvolgendo importanti personaggi), reportage di eventi internazionali, recensioni di mostre. Ho editato studi monografici su artisti contemporanei e libri-intervista. Da curatore indipendente ho attuato esposizioni individuali e collettive in spazi istituzionali e telematici. Risiedo ad Ascoli Piceno.
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