William Kentridge nel periodo in cui era occupato a Roma nell’attuazione di “Triumphs and Laments” su un muraglione del Tevere e in altri lavori all’estero non aveva potuto rispondere, via email, alle mie domande. Successivamente l’ho ricontattato e mi ha inviato un file audio di cui riporto la traduzione. Nell’ottobre scorso, durante la Frieze Week di Londra, alla Whitechapel Gallery ho avuto il piacere di visitare la sua straordinaria esposizione “Thick Time” (aperta fino al 15 gennaio 2017) con sei lavori realizzati tra il 2003 e il 2016, incluse due immersive installazioni audio-visuali.
Luciano Marucci: Per le tue mostre personali preferisci non coinvolgere curatori esterni? Le tematiche stabilite dai curators limitano o stimolano l’immaginario?
William Kentridge: Credo che occorra separare le mostre che si fanno in gallerie commerciali da quelle nei musei. Nelle gallerie private non mi aspetto mai che ci sia un curatore, ma la cosa potrebbe essere interessante; di solito provvedo io alla scelta delle opere e al bilanciamento tra loro. Per un museo, dove i lavori esposti vengono presi dai nuovi o da quelli già esistenti, sono costantemente portato al dialogo e spero in un curatore che mostri ciò che non ho ancora previsto in termini di rapporto tra i diversi pezzi o di temi trasversali. Sono felice quando un curatore sceglie le opere e allestisce l’esposizione senza troppi input da parte mia, proprio nella speranza di vedere qualcosa di inedito. Altrimenti, se prendessi io ogni decisione e curassi io stesso ogni mostra, esse potrebbero risultare sempre uguali. Recentemente ho anche iniziato a lavorare con Sabin Threunissen, una scenografa che mi affianca in una produzione teatrale, che fa da intermediaria tra me e le istituzioni in cui il lavoro viene presentato. Non si tratta semplicemente di essere un exhibition designer come un architetto, giacché spesso c’è da negoziare con l’allestitore dell’istituzione stessa, ma di un caso di collaborazione con qualcuno che conosce bene la mia produzione e che ha modi di esporla come io non avrei osato fare, o che lo relaziona in maniera nuova e interessante. Il rapporto con un curatore è anche più complesso, perché l’esposizione riesce meglio se si sviluppa su due linee: sia che provenga da un interesse in atto che l’artista ha per qualche particolare tema, sia che favorisca l’azione del curatore. C’è uno stimolo, un obiettivo, un suggerimento; la dimostrazione che il curatore riesce a legare tutto a ciò che l’artista sta facendo, che produce qualcosa di diverso da quello a cui sarebbe arrivato se egli (o ella) fosse stato solo nel suo studio. Spesso penso che i temi espressi dai curatori, se non troppo didattici e specifici, possano essere obiettivi raggiungibili, ma devono sempre derivare da un dialogo particolare, da un rapporto duraturo tra curatore e artista. I contesti curatoriali sono più interessanti quando la relazione dura più di una mostra, più di un progetto, permettendo al curatore di conoscere l’artista e viceversa.
Ogni tua esposizione nasce da un particolare progetto? Ha una dichiarata identità?
Credo che a volte il lavoro riguardi ciò che accade nello studio durante un periodo, quello svolto, ad esempio, negli ultimi due anni. Per me è significativo vedere che si stabilisce un collegamento tra i vari progetti. Spesso si determina una migrazione di immagini da un progetto all’altro, così, anche se sto lavorando a due progetti molto differenti, siano essi un’opera o una installazione a Istanbul, avranno immagini e sezioni in comune. Questo ha più probabilità di essere riscontrato in una mostra generica che contiene elementi di entrambi i lavori, fatti per luoghi diversi. Alcune esposizioni o lavori in esse presentati sono molto specifici, come è avvenuto in Cina, all’Ullens Center for Contemporary Art [di Pechino], dove sapevo di voler proporre una nuova piece in cui potevano relazionarsi Cina e Sud Africa. L’ho dovuta fare mentre in Cina c’era un’altra mostra di artisti dal Sud Africa ed è venuto fuori Notes Towards a Model Opera, che ha riguardato la rivoluzione culturale cinese: tematica da una parte completamente nuova per me, dall’altra continuazione di un’investigazione in atto sulle utopie e i loro fallimenti, che mi ha indotto a guardare ad essi in maniera diversa.Fine modulo
I curatori che non appartengono alla categoria dei critici d’arte possono promuovere eventi originali?
Sono sicuro che lo possono; dipende dal singolo curatore, dall’interesse, dall’occhio, dagli agganci immaginativi che essi riescono a fare mettendo insieme lavori differenti nella speranza che il pubblico, osservandoli, stabilisca connessioni non effettuate prima.
…I più impegnati possono stimolare la creatività e accelerare il processo evolutivo della cultura artistica con le loro esposizioni senza limiti generazionali, linguistici, disciplinari e geografici?
Non so bene cosa voglia significare “accelerare il processo evolutivo della cultura artistica”. Penso che ci siano cose che accadono a margine del mondo dell’arte e il buon critico-curatore sia aperto ad esse e utilizzi la categoria dell’entusiasmo e della difesa del nuovo lavoro per portarlo dalla marginalità verso l’attenzione del pubblico che altrimenti non lo vedrebbe e, come è auspicabile, a quella di altri artisti che – come tu dici – ne possono venire stimolati. Non sono certo se ciò costituisca il processo evolutivo della cultura artistica, ma è più vicino a quello che penso potrebbe essere.
Per realizzare eventi propositivi è indispensabile disporre di una produzione artistica inedita o innovativa?
No, non la penso così. Credo che a volte possiamo avere l’innovazione tecnologica per sé stessa. Il mondo dell’arte cerca di mantenere il passo con le rivoluzioni digitali, ma stiamo ancora aspettando che una grande opera venga realizzata con l’uso della realtà virtuale. Vi è la possibilità che l’arte oggi venga fatta dai games designers e da altre persone le quali non avrebbero mai pensato a sé stessi come artisti, ma il loro lavoro potrebbe essere esposto nei musei al pari delle opere degli artisti.
Secondo te, gli artisti più sensibili, intuitivi e creativi, che attraverso le loro opere partecipano al divenire della realtà, possono prefigurare o addirittura progettare nuove prospettive per l’umanità presente e futura?
È una domanda molto difficile da rispondere. Non credo di avere un punto di vista su questo. Perché una nuova prospettiva per il futuro dell’umanità è un compito arduo. Il nostro lavoro è molto, molto più modesto ed ha a che fare con la comprensione del modo in cui interagiamo con il mondo, in cui costruiamo un significato nel mondo, come costruiamo il mondo che ci circonda. È qualcosa che gli artisti fanno e dimostrano, ma non vorrei dire che riescano a “prefigurare” il futuro dell’umanità.
Spero che questo ti dia qualche indicazione e sarò certamente felice di aiutarti con le immagini.
Questo è William Kentridge nel suo studio a Johannesburg, alle 12.15 di sabato mattina 24 luglio 2016.
Luciano Marucci
(Trascrizione e traduzione dalla registrazione audio in inglese di Ciro Cocozza e Kari Moum)
[Testo riportato anche in “Pratiche Curatoriali Innovative” (VI) di “Juliet” art magazine n. 180, pp. 42-44, dicembre 2016-gennaio 2017. Chi desiderasse ascoltare le risposte in inglese può attivare il file audio qui sopra.]
Ritratto di William Kentridge (ph Marc Shoul)
William Kentridge, “Notes Towards a Model Opera”, 2014-2015 videoproiezione a 3 canali, colore, suono, durata 11’ 14’’, installazione a Johannesburg, Londra, New York, Pechino 2015, riproposta in “Unlimited “, Art Basel 2016 (courtesy Kentridge Studio, Johannesburg)
Notes Towards a Model Opera è incentrata sulla storia intellettuale, politica e sociale della Cina moderna ed esplora le dinamiche di diffusione culturale e di metamorfosi della Rivoluzione culturale cinese. L’opera prende in esame i balletti didattici, sia come fenomeno culturale a sé stante sia come parte di una storia della danza che attraversa continenti e secoli. Kentridge sovrappone giocosamente le trasformazioni estetiche e ideologiche del balletto in tutto il mondo, compresa la nativa Johannesburg.
William Kentridge, “Triumphs and Laments: a project for Rome” 2016, fregio su un muraglione del Tevere a Roma, m 550 x h 10, performance, 21 aprile 2016, direttori Thuthuka Sibisi e Fabrizio Cardosa, sound designer David Monacchi, costumi Greta Goiris (courtesy Kentridge Studio, Johannesburg; ph Marcello Leotta).
Partita da Ponte Mazzini e da Ponte Sisto per incontrarsi al centro, la ‘processione’ ha eseguito un canto Mandinka degli schiavi africani, un’antica canzone dell’Italia meridionale e un grido dei guerrieri Zulu che si mescolavano a parole del poeta Rilke. Nell’operazione Kentridge ha esplorato le tensioni che hanno dominato la storia della Città Eterna celebrando le più grandi vittorie e sconfitte dai tempi mitologici ad oggi.
William Kentridge, “Untitled (Bycycle Wheel II)” 2012, acciaio, legname, ottone, alluminio, parte di bicicletta e oggetti trovati, mostra personale “Thick Time” alla Whitechapel Gallery di Londra (courtesy l’Artista; Marian Goodman Gallery, New York/Parigi/Londra; Goodman Gallery Johannesburg/Cape Town; Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano; ph L. Marucci)
Sono Luciano Marucci, nato per caso ad Arezzo e ho l’età che dimostro… Dopo un periodo in cui mi sono dedicato al giornalismo, all’ecologia applicata, all’educazione ambientale e ai viaggi nel mondo, come critico d’arte ho collaborato saltuariamente a riviste specializzate (“Flash Art”, “Arte e Critica”, “Segno”, “Hortus”, “Ali”) e a periodici di cultura varia. Dal 1991 in “Juliet Art Magazine” (a stampa e nell’edizione on line) pubblico regolarmente ampi servizi su tematiche interdisciplinari (coinvolgendo importanti personaggi), reportage di eventi internazionali, recensioni di mostre. Ho editato studi monografici su artisti contemporanei e libri-intervista. Da curatore indipendente ho attuato esposizioni individuali e collettive in spazi istituzionali e telematici. Risiedo ad Ascoli Piceno.
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