Ormai sono venticinque anni che la Kunsthalle Basel commissiona progetti artistici per la parete posteriore dell’edificio, con l’intenzione di mantenere vivo un dialogo con la cittadinanza e soprattutto con quelle persone che molte volte hanno timore di varcare la soglia di un museo o di uno spazio espositivo. Questi interventi sono un modo anche per dire che l’istituzione è viva e che le cose succedono e gli appuntamenti si susseguono, uno dopo l’altro, anche quando l’orario di apertura non corrisponde al nostro desiderio di visita. In qualche maniera, queste mostre a cielo aperto che evidenziano una ampia parete esterna, divengono pure una strategia per puntare il dito verso l’interno ossia con la speranza che il richiamo lanciato “a tutti e a nessuno” possa essere raccolto. Seguendo questa prassi operativa (senza pretendere di imporre nulla in maniera definitiva, visto che a fine ciclo, come in una classica mostra, l’intervento viene rimosso) la Kunsthalle dialoga con una delle esperienze più significative dell’arte contemporanea ovverosia con quella della cosiddetta public art, cioè con quelle pratiche artistiche che escono dal white cube per atterrare negli spazi aperti della città. E in una città che accoglie, in due snodi viari, due colossali opera scultoree di Jonathan Borofsky, mi pare che la scelta sia più che legittima, direi quasi necessaria.
Per il biennio 2021/2022, l’autore che è stato chiamato a realizzare questo intervento è Yoan Mudry. Yoan Mudry (nato nel 1990 a Losanna, vive a Ginevra, CH) è un artista multidisciplinare. Ha studiato alla HEAD di Ginevra dove si è laureato con un MFA nel 2014. Il suo lavoro si concentra sul tentativo di comprendere i meccanismi del flusso di immagini, narrazioni e informazioni che circondano il nostro mondo. Nel giro di pochi anni l’autore ha realizzato una impressionante sequenza di performance, installazioni e dipinti, ottenendo anche residenze e partecipando a numerosi progetti pubblici. Il suo linguaggio è onnicomprensivo e spazia dai tratti iperrealistici al linguaggio della cultura bassa o cosiddetta popolare, alle contaminazioni colte. Il risultato è spesso giocoso e non avulso da immagini di marketing commerciale. L’eclettismo di Mudry nella produzione di immagini si estende all’idea del marchio di sé come “artista” e a una sottile e ironica critica rivolta alla società capitalistica. Come molti graffitisti e altri artisti prima di lui hanno dimostrato, da Andy Warhol a Mark Kostabi a Jeff Koons a Superflex, l’arte contemporanea non può essere aliena da questo dibattito sull’autorialità del segno, sulla proliferazione indistinta delle immagini, sulla possibilità di una sostituzione della mano artigiana dato che l’uso indiscriminato del cellulare ha reso moltissime persone produttori e consumatori di immagini, cioè prosumer.
Ecco perché l’inventario delle immagini di questo autore, il suo repertorio o catalogo, se così vogliamo dire, a partire dal 2010, ha un profilo del tutto orizzontale, nel senso che pesca nella quotidianità, in quella miriade di informazioni da cui tutti noi siamo bombardati, mettendo sullo stesso piano i soggetti provenienti dalla televisione, dai social media, dal fumetto, dalla musica, dalla storia dell’arte, dalla cultura pop, senza tralasciare contenuti o argomenti legati alla denuncia, all’attivismo socio-politico e alla filosofia. Il processo attuato è quello dell’appropriazionismo e della successiva rielaborazione. Certo, l’autore si rende perfettamente conto che il discrimine tra il minestrone indistinto e la scelta di un certo tipo di verdura è difficile da fare: la massa delle informazioni è eccessiva e non basterebbe una vita per vedere di fare un po’ di ordine, ecco perché l’approccio talvolta non può essere altro che casualmente selettivo, dato che la regola e il caso sono termini di un discorso già conosciuto e approfondito. Ma quello che egli realizza a livello di immagine proposta non vuole essere qualcosa che si riduce a didascalia o a illustrazione: l’idea è quella di incitare ogni singola persona a pensare e a raggiungere da sé stessa delle conclusioni ragionevoli. Come dire, all’artista spetta indicare o lanciare il messaggio, agli altri il compito di raccoglierlo e di rielaborarlo. Per dirla con le parole di James Hillman dovremmo parlare di “immagini fratturate, vicarie, disperse, frantumate, come se ci trovassimo davanti a un mosaico scomposto”.
Questo tipo di approccio emerge con chiarezza anche nell’intervento “The Future Doesn’t Need Us” che vede delle frasi giustapporsi a immagini dipinte direttamente sul muro e inframezzate da stampe in bianco e nero. Per dirla con le parole dell’autore, qui siamo in presenza di qualcosa “not easily digestible” poiché “the underlying message for me is critical —a commentary, however subjective, on the functioning of our societies, on our behaviors, on the things we do as societies, and on what we accept and foster for economic, political, or cultural reasons, all of which seems to be making the world go very wrong”.
Maddalena B. Valtorta
Info
Yoan Mudry, The Future Doesn’t Need Us
11/09/2021 – 15/05/2022
Kunsthalle Basel
Steinenberg 7
CH-4051 Basilea
T +41 61 206 99 00
info@kunsthallebasel.ch
Yoan Mudry, installation view, The Future Doesn’t Need Us, Kunsthalle Basel back wall, 2021. Photo: Philipp Hänger / Kunsthalle Basel
Yoan Mudry, detail view, The Future Doesn’t Need Us, Kunsthalle Basel back wall, 2021. Photo: Philipp Hänger / Kunsthalle Basel
Yoan Mudry, detail view, The Future Doesn’t Need Us, Kunsthalle Basel back wall, 2021. Photo: Philipp Hänger / Kunsthalle Basel
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