Il successo di critica e pubblico di Kinds of Kindness, ultimissima fatica di Yorgos Lanthimos, premia senza alcun dubbio quella che è forse la qualità prima del suo cinema: una coerenza d’impostazione, una cifra stilistica, una ricorrenza tematica difficilmente eguagliabili. A livello di opinione, più o meno sofisticata o comune, pare dunque prevalere la clemenza sull’inevitabile rovescio della medaglia. Sul fatto cioè che, senza arrivare a dire che visto uno dei suoi film li si è visti tutti, ciascuno di essi sembra una variazione più o meno virtuosa o sobria di un canovaccio intessuto in origine e una volta per tutte.
Del resto, che un fenomeno simile sia ricorrente tra i prodotti cinematografici, specie quelli della West Coast americana, è ben noto. Come rimproverare che, scoperto il successo di un genere, lo si replichi a oltranza? L’importante non è forse che lo spettacolo proceda? E che da qualche parte ci sia di che guadagnarne? Tanto tempo fa non ci fu il momento d’oro dei cosiddetti western psicologici – meno pistolettate e più pistolotti – sull’etica del cowboy? Ora il nostro Yorgos Lanthimos può essere considerato se non l’inventore, uno dei più accreditati promotori di un genere similmente “nuovo”. Diciamo così il genere dell’horror psicologico: un horror che non fa chiudere gli occhi ma la bocca dello stomaco, che non fa rabbrividire la pelle ma procura nausea, che non induce insonnie terrificanti, ma stordimenti mentali, che non perturba i sensi, ma li manda in stato confusionale.
Senza anticiparne il contenuto e rovinare la sorpresa dell’eventuale spettatore, esemplare di quanto ora detto è la conclusione del secondo degli episodi di Kinds of Kindness. Assistendovi, dopo essere stati stuzzicati da qualche raccapricciante immagine macabra, ci si ritrova davanti a un finale tanto equivoco, quanto disorientante: l’enigma aleggiante fin dalle prime battute della storia non viene né risolto né eluso, ma addirittura raddoppiato. Follia e realtà compaiono dunque pari merito, con eguali titoli di credibilità. Né a ogni spettatore è lasciata la sua verità, ma solo la certezza vertiginosa che di verità proprio non ce n’è comunque alcuna, mentre il disagio angoscioso per non trovarne nessuna è di tutti. Assai simile è l’andamento e la conclusione degli altri due episodi. In entrambi il racconto per frammenti lascia molti misteri su fatti e personaggi narrati, finché sopraggiunge un evento che ne smaschera un’inattesa dimensione, ovviamente sinistra, come ad esempio la figura di un papà bello e buono, quello che tutte noi vorremmo avere o avere avuto al fianco, rassicurante al massimo, che si rivela invece del tutto perverso e contorto. Fermo restando che in tutti film di Lanthimos, a partire da Lobster, ma specie in quest’ultimo, la soluzione di ogni ambiguità fomentata dal procedere narrativo non fa che implementare ulteriori equivoci, fraintendimenti, insensatezze e, ovviamente, orrori.
Ma non si tratta, comunque, di uno scavo nichilista che cerca varchi inesplorati tra le crepe del residuo buon senso comune di questo nostro tempo così irrimediabilmente disorientato (come dice il filosofo francese Alain Badiou). Il regista greco si limita, infatti, a impacchettare un’immagine del tutto spettacolare dello smarrimento contemporaneo, lanciando qua e là delle strizzatine d’occhio volte a smarcarsi da derive culturali estreme o ad accogliere facili consensi. Così, se nel sontuosamente dipinto Povere creature ci si sforzava a civettare più o meno maldestramente con le problematiche femministe, in questo del tutto asciutto e ben meno immaginifico Kinds of Kindness, non si disdegna di divertire il pubblico prendendo in giro i riti strampalati di una setta mistica. Queste concessioni al gusto più scontato non fanno che confermare le intenzioni in fondo modeste, da un punto di vista artistico, di tutta l’impresa cinematografica di Yorgos Lanthimos.
Vien da dire che come l’horror propriamente detto, anche quello psicologico ha nel puntare tutto sugli “effetti speciali” la sua vocazione principale. Effetti speciali, non tanto a livello di immagini e suoni, ma livello appunto “psicologico” – ammesso e non concesso di assumere questo termine in senso essenzialmente merceologico, come era il caso nel precedente degli western detti per l’appunto “psicologici”. Non dovrà sembrare un’eccessiva malignità, allora, sospettare che l’immediata uscita di Kinds of Kindness, a bassissimo costo o ridottissimo tempo di produzione, sia in grande parte dovuta alla volontà del regista di sfruttare al massimo la notorietà ancora calda dell’Oscar ricevuto poco tempo fa.
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Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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