Nell’epoca dell’iper comunicazione digitale è diventato un luogo comune parlare di allestimento immersivo, designando con questo termine la riuscita attitudine scenografica di un progetto espositivo congegnato per suscitare nel visitatore l’impressione di essere protagonista di un’esperienza, le cui coordinate spaziali, temporali ed emozionali vengono sapientemente determinate dalle reciproche relazioni delle opere convocate in mostra. L’assurgere di tale caratteristica a valore primario e assoluto, in evidente omologia con le logiche mediatiche e social di fotogenia dell’opera, finisce nella maggior parte dei casi per svuotare di significato il lavoro esposto, trasformando quello che dovrebbe essere un mezzo in un obiettivo fine a sé stesso che assorbe acriticamente l’energia creativa degli artisti e monopolizza la recettività degli spettatori. Queste riflessioni vengono in mente per contrasto visitando Il resto della terra, personale di Sophie Ko (Tbilisi, 1981) in corso alla Galleria de’ Foscherari di Bologna, una mostra la cui impaginazione sobria ed esteticamente ineccepibile scardina questo approccio semplificato per funzionare come efficace dispositivo di immersione visiva, emozionale e intellettuale che introduce con naturalezza il visitatore nel raffinato e colto immaginario dell’artista georgiana. Nessun effetto speciale dunque, ma un itinerario perfettamente scandito in momenti epifanici, ciascuno dei quali materializza una differente ipotesi di rielaborazione materica, ontologica e poetica del concetto di immagine.
L’arte senza distinzione di tempo, spazio e origine costituisce da sempre l’orizzonte immaginativo, ideativo e linguistico della ricerca di Sophie Ko, che trova il proprio principale fondamento teorico nelle intuizioni di Georges Didi-Huberman, secondo il quale le immagini del passato insorgono nel presente e si incendiano dove si fa più lacerante il contrasto tra il distacco e l’appartenenza alla realtà di cui sono state originariamente espressione. È un sensibile omaggio al filosofo francese Quanto dura una candela (2021), stampa fotografica collocata subito dopo l’ingresso della galleria in cui compare una candela accesa in un ambiente buio incorniciata e resa visibile dal tenue chiarore dell’alone luminoso della sua fiammella. L’opera, che richiama in modo preciso (ma non ostentato) l’intimità notturna dei maestri seicenteschi post caravaggeschi, come Georges de La Tour, Gerrit van Honthorst o Trophime Bigot, dimostra la capacità dell’artista di aderire intellettualmente agli oggetti della sua indagine e di sussumerli (senza tradirne l’essenza) nel suo discorso artistico. Questo particolare soggetto, oltre a individuare l’incipit del percorso espositivo suggerendo al visitatore di cercare in ogni lavoro esposto una differente modalità di riemersione di un’immagine e dell’immaginario a cui essa rimanda, allude al suo “bruciare” secondo il pensiero di Didi-Huberman e prefigura la particolare natura del materiale che per primo nella vicenda creativa dell’artista ha veicolato questa ricerca, ovvero le ceneri derivate dalla combustione di immagini di celebri opere della storia dell’arte assieme a polveri di pigmento puro.
Una trasposizione allegorica e letterale dell’idea di combustione ritorna in Lacrime su fuoco (2021), serie di collage su carta inquadrati in cornici dorate in cui vediamo piccole porzioni di immagini pittoriche stampate trapelare dalle bruciature ovalizzanti degli strati di carta bianca che le ricoprono impedendone la visione unitaria. Dal punto di vista lessicale qui l’artista rielabora e ibrida alcuni capisaldi tecnici e concettuali della storia dell’arte più recente, come i Cellotex, le abrasioni di materie plastiche ottenute tramite fiamma ossidrica con cui negli anni ‘60 Alberto Burri aveva oltrepassato i limiti della materia e i confini tra pittura e scultura rivelando l’osmosi tra lo spazio dell’opera e quello delle nostre percezioni sensoriali, o come i coevi Concetti Spaziali in oro di Lucio Fontana, in cui la presenza del più nobile dei metalli rinvia, come nell’antichità classica, paleocristiana, medievale e rinascimentale, alla sintesi di luce e spazio quale suprema astrazione antinaturalistica, nella sua interpretazione fisica e estetica. Anche i buchi provocati da Sophie Ko sulla superficie pittorica tramite bruciature sottraggono materia per rivelare, attraverso la tensione tra il frammento e l’intero inconoscibile, lo spazio mentale in cui l’immagine si costruisce e si determina come incarnazione singolare di una tra le infinite forme possibili che nell’extramondo di ciò che è potenzialmente visibile precede l’insorgere del contenuto semantico.
La memoria culturale che si stratifica in profondità nelle opere dell’artista non è esibita come citazione, ma è parte integrante del suo linguaggio, come si può evincere da quella che si potrebbe definire l’opera-manifesto di questa attitudine, ovvero Battiti d’ali (2018), piccolo quadro in cui una scia iridescente di polline di ali di farfalla attraversa un campo nero di inchiostro. Il soggetto, oltre a emozionare per la capacità di un gesto essenziale di generare un nuovo spazio-universo e a stupire per la preziosità della materia “magica” ivi depositata, rielabora in chiave minimalista il dipinto Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù (1523-1524) di Dosso Dossi, universalmente interpretato quale allegoria della pittura come dono divino, in cui si vede Giove dipingere su una tela bianca alcune farfalle, a loro volta metafora di una tavolozza soprannaturale. Se qui l’artista mette in scena gli strumenti della pittura collocandosi con approccio dialogico in una precisa filiera di derivazioni, tra cui potremmo menzionare anche Sineddoche (1976), installazione di Claudio Parmiggiani composta da una riproduzione del quadro di Dosso Dossi e da una tela con le farfalle dipinte con davanti uno sgabello e una tavolozza, nella triade La furia delle immagini, L’uomo è questa notte e Il rezzo della terra (2021) viene invece chiamata in causa la finestra albertiana “quadrangolo di retti angoli (…) el quale reputo essere una finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto” quale paradigma espressivo fondante della tradizione pittorica occidentale. Ciascuna di queste finestre prelevate dal reale (espressione di un’attitudine verso la cultura del ricordo che potrebbe essere analoga a quella di altri artisti come Petrit Halilaj o Vajiko Chachkhiani) si apre su un diverso paesaggio di terra e ceneri, al di là del quale intuiamo ancora una volta la presenza pulsante ed emotivamente galvanizzante delle immagini.
L’avvincente viaggio nel misterioso territorio di origine delle immagini di Sophie Ko trova in questa mostra una spettacolare conclusione in Metaxy (2021), polittico composto di teche di vetro riempite con pigmento puro blu oltremare e polvere d’oro che, collocato in uno spazio schermato da una parete, costituisce a mio avviso l’acme del percorso immaginativo proposto dall’artista. La composizione fa convergere in un monumentale impianto sacrale la brutale spiritualità della pittura religiosa medievale, le raffinatezze aniconiche dell’arte orientale e le visionarie esplosioni di luce delle estasi barocche. Le due preziosissime polveri, fondendosi in provvisori assetti di aggregazione, generano cascate di luce e colore sempre diverse, nelle cui trasformazioni trova un’iconica evidenza visiva l’incessante metamorfosi di un’immagine-matrice costantemente rimescolata dalla propria inesauribile energia endogena.
Info:
Sophie Ko. Il resto della terra
9 ottobre 2021 – 7 febbraio 2022
Galleria de’ Foscherari
Via Castiglione 2 b Bologna
Sophie Ko, Quanto dura una candela, 2021, foto stampa giclée su carta politenata, inchiostro a base pigmento, cm 40 x 30, courtesy Galleria de’ Foscherari
Sophie Ko, Quanto dura una candela, 2021 e Lacrime su fuoco, collage e combustioni su carta, 2021, courtesy Galleria de’ Foscherari
Sophie Ko, Lacrime su fuoco, (dettaglio) collage e combustioni su carta, 2021, courtesy Galleria de’ Foscherari
Sophie Ko, Battiti d’ali, 2018, polline di ali di farfalla, cm 40 x 32, 2018, courtesy Galleria de’ Foscherari
Sophie Ko, da sx a dx: La furia delle immagini, L’uomo è questa notte, Il rezzo della terra, 2021, courtesy Galleria de’ Foscherari
Sophie Ko, Metaxy, polittico, pigmento puro e polvere d’oro, 2021, courtesy Galleria de’ Foscherari
Laureata in storia dell’arte al DAMS di Bologna, città dove ha continuato a vivere e lavorare, si specializza a Siena con Enrico Crispolti. Curiosa e attenta al divenire della contemporaneità, crede nel potere dell’arte di rendere più interessante la vita e ama esplorarne le ultime tendenze attraverso il dialogo con artisti, curatori e galleristi. Considera la scrittura una forma di ragionamento e analisi che ricostruisce il collegamento tra il percorso creativo dell’artista e il contesto che lo circonda.
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